testi anni 50
in “Fotografia”, luglio 1957
Interessarsi dal punto di vista estetico dei grandi magazzini, significa in pratica evocare una delle suggestioni più caratteristiche dell’urbanesimo.
Il millenario rituale della compravendita, sterilizzato e incatenato dai prezzi fissi e illeggiadrito dalla cornice erotico-persuasiva delle commesse, coincide veramente con un alto grado di ascesa nel perfezionarsi dei rapporti sociali, quale appunto è dato riscontrare nelle grandi città.
Sono comunque gli aspetti formali del fenomeno quelli che qui maggiormente importano, sia perché concernono più da vicino la traduzione in immagini fotografiche, sia perché in situazioni come queste la “sostanza” dell’avvenimento in realtà sta completamente alla sua superficie. Le luci, per esempio, i riflessi incrociati delle porte, le strutture implacabili di scaffali o pilastri, e il formicolio delle persone in mezzo, sono elementi che vanno da soli oltre a ruolo di “quinte” della composizione e diventano con naturalezza l’oggetto essenziale della nostra indagine.
Una sera piovigginosa, bulbi di calda luce per invitare all’interno, volti di donna nel fruscio dei cardini, e sciame di passi sul pavimento con segatura e scontrini: riconoscendomi d’un tratto spettatore – ma non impotente poiché c’erano a soccorrermi pellicole rapide e diaframmi aperti e venticinquesimi di secondo – di un evento quotidiano e pur pieno di solennità, mi venivano due tipi di considerazioni. Una anzitutto, sul concetto zavattiniano del messaggio poetico sempre latente nella pura realtà. Mi ero chiesto tante volte perché nella prefazione al suo Un paese, Zavattini affermasse sufficienti, per scoprire l’anima dell’Italia, dei giovanotti “con Leica o Condor … e scattare sempre… tutto va bene, tutto va bene …”. Davvero stavolta mi accorgevo quanto spesso la realtà riuscisse a erompere dalle immagini, e come riuscisse a “dire” tutto senza bisogno di interventi da parte di chi subiva l’emozione: la civiltà delle macchine, il senso un po’ nauseante della razionalità profumata, le donne impegnate nel matriarcato più essenziale (che è appunto il far le compere) e tuttavia come attonite di far parte di una rappresentazione spettacolare… Era un concetto dopo l’altro che mi scappava fuori dal vetro smerigliato della Rollei e mutava continuamente le sue sembianze compositive. Tutto bene, tutto bene, da qualsiasi parte con qualsiasi distanza, bastava schiacciare l’otturatore al momento che sembrava più opportuno. Ma perché mi veniva fatto di chiedermi, si scelgono i momenti? Perché una realtà ci appare ad un dato attimo più bella? Che cosa hanno le foto qui pubblicate di preferibile a quelle ipotetiche, scattate un attimo prima o un attimo dopo? D’accordo, io – come qualsiasi altro – avevo deciso in seguito ad un veloce ragionamento, quasi intuito d’istinto. Per esempio: la donna coi pacchi che guarda verso l’alto, mezzo smarrita e mezzo presuntuosa, dietro le lampadine sfocate e incombenti a diagonale, tac. Oppure: i gesti femminili compassati e armonici, nel camminare, aprire porte, aggrottare le fronti, un po’ fantastiche nel tono basso ecco quelle due, e dietro la vecchietta, tac. Ma in realtà il limite di questa concezione, che è un po’ il limite di tutta la ricerca artistica in fotografia, si rivelava proprio nello scegliere alcuni istanti di una realtà tutta bella, con criterio appunto “istintivo”, un po’ banale, troppo “culturale” e troppo poco sentito. Cioè, facendo il discorso più generale, si finisce col sottolineare quello che già per lo più la gente sa e capisce; si immobilizzano gesti, cose, sentimenti che già si conoscono come validi per tutti, o che – ahimè – tutti definiscono “pittoreschi”, e retorici. Il mendicante che più lacero di così si muore. La bambina che più sporca e vivace di così si muore. Il gasometro, il fiore, il mercato, che gli amici diranno: davvero sono proprio così i gasometri, i fiori, i mercati. Si hanno troppo poche “idee fotografiche”, ecco. Il secondo ordine di considerazioni, che pure mi era suggerito dalla situazione fotografica con cui ero a contatto, riguardava la disputa generica che attualmente trova divisi in due schiere generiche i fotografi italiani. Oh, è ben vero che anche da una collettiva vista, ipotetica, ai grandi magazzini sarebbe poi uscita, implicita nelle opere, la solita polemica. Da un lato, grosso modo, un accademico equilibrio compositivo, la compiacenza – e l’equivoco – del tecnicismo, con le vittime estetiche sacrificate sull’altare della Grana Fine, dei Mezzi Toni, del Ritocco. E dall’altro l’ostentato disinteresse per gli indugi formali, un’orgia di contrasti, sbavature e “mossi” salvo a ricadere nel neo-formalismo, metti caso, della Grana Grossa, dove si cerca di trasformare in interesse il fastidio dell’osservatore.
E poi l’irrigidirsi e l’esasperarsi in programmi contrapposti, lettere chiuse o aperte, parzialità e proteste di imparzialità delle giurie, il mio amico Croci tirato da tutti per la giacca – Abbiamo ragione noi, vero? – che resiste e sa sorridere sempre.
Bene, pensavo, non è detto che questa disputa non sia feconda di chiarezza ideale, nei prossimi anni di evoluzione fotografica. In fondo però il divario non tocca che i modi esteriori con cui dare efficacia all’immagine: e non già l’interesse iniziali dei fotografi. Tutti, sono sicuro, si sarebbero accostati con attenzione e acutezza al tema che quella sera mi era venuto incontro. In questo senso, si può concludere, cade l’accusa reciproca di non essere “moderni”: si è sempre moderni, in fotografia, in quanto questa è nella sua essenza un “rapporto con la realtà” e naturalmente tale realtà non può stare mai indietro coi tempi. Come si fa a fare i “sorpassati” scattando foto da cui non può trasparire una testimonianza del tempo che le ha generate?
Questo mi sembrava un punto abbastanza importante, e tale perciò da configurare una fondamentale distinzione tra la fotografia e le altre arti.
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