testi anni 60
in “Francesco Negri Fotografo a Casale 1841-1924”, volume presentato in occasione della mostra (Casale Monferrato, Galleria S. Rosa, 19 aprile – 4 maggio 1969), Centro Informazioni Ferrania / Cooperativa Il Libro Fotografico, Bergamo 1969
Come viene già detto in altri dei testi qui raccolti, l’originalità del contributo di Negri allo sviluppo pratico della fotografia risiede nelle sue ricerche al servizio delle indagini scientifiche, soprattutto nella biologia e nella botanica. Tuttavia molte delle pagine di questo libro sono dedicate alle testimonianze che egli lasciò del volto esterno e della società di Casale «fin de siècle»; anche se appare con immediatezza che il suo lavoro in queste circostanze fu assolutamente disimpegnato, cioè alieno da ogni programmazione creativa, e parimenti estraneo ad ogni finalità di intervento «civile». Il fatto è che i decenni creano col loro trascorrere una modificazione nel senso di taluni messaggi – in particolare di quelli offerti dalle immagini ottiche – e fanno acquistare ai più eloquenti fra essi una sorta di autonoma grandezza, dove « creativo » finisce con l’essere il Tempo, ma senza che ciò diminuisca la funzione iniziale ed i meriti dell’autore. Queste visioni di palpitante immediatezza delle folle piemontesi, soprattutto questi gruppi di amici e familiari di Negri, possono diventare in pratica dei veri strumenti di indagine antropologica, di introspezione a posteriori… dove il nostro senso critico (la nostra ansia di sapere «con esattezza») viene esaudito in modo preciso e folgorante. I numerosi gruppi che abbiamo scelto, e la dimensione ampia che personalmente abbiamo cercato di offrire ad essi nell’impaginazione, non sono quindi delle concessioni al pettegolezzo «d’epoca», né rappresentano la convenzionale abdicazione di fronte al sillogismo fotografìa-ricordo di famiglia. Crediamo invece che siano strumenti visivi di aperta decifrazione, capaci di fornire una massa di appigli psicologici e sociologici verso la comprensione del clima che Negri viveva, e anche verso la giustificazione di un suo certo atteggiamento come fotografo nei riguardi dei soggetti. La malferma ricostruzione della sua personalità, tentata attraverso i ricordi di chi lo conobbe, non riesce a chiarirci a sufficienza un carattere; è tuttavia chiaro che Negri si sentiva ad un tempo superiore ai suoi concittadini e disadattato rispetto ai limiti « provinciali » delle strutture culturali che lo circondavano. Così il suo atteggiamento di osservatore «armato» – la fotocamera come strumento di indagine ma anche di possesso – oscilla tra l’estraneità e l’adesione alle vicende, a seconda che si tratti di istantanee al volo per le strade, o di gruppi agli amici nelle case e nei giardini. L’estraneità alle vicende casalesi di piazza, non è naturalmente estraneità intellettuale: è estraneità fisica, o se vogliamo, timidezza, introversione. Ho fatto passare tutte le lastre di Negri, e posso dire di non aver scorto in nessuna istantanea «dal vivo» un vero coinvolgimento dell’autore rispetto alle vicende fotografate. Dobbiamo per forza sempre immaginarlo sugli argini, sul balcone, sulla carrozza, sul muro, sul ponte… sempre al di là e discosto dalla scena. Nessuno gli fa uno sberleffo in macchina, nessuno gli è mai troppo vicino, tranne qualche bambino ignaro… nulla ci fa pensare che egli non si sia allontanato in fretta dopo lo scatto. Riprenderemo il discorso nel capitolo L’occhio del turista. Quello che qui ci preme chiarire è che di fronte alla scontrosità dell’’uomo pubblico stava sicuramente una ben diversa apertura di carattere quando la società davanti all’obiettivo era quella piccola dei parenti, degli amici, dei fidati compagni di mensa o di caccia. Probabilmente essi conoscevano la misura dei suoi interessi di fotografo, sapevano da tempo del suo «chiodo», osservavano la voluminosa varietà degli strumenti con ammirazione e simpatia. Il rapporto difficile verso Francesco Negri scorbutico e introverso sembrava sciogliersi d’innanzi al rituale della posa, che – non dimentichiamolo – alla fine dell’ ‘800 aveva un significato completamente diverso dall’attuale. Per molti dei soggetti il gruppo fotografico era un’occasione di far produrre la propria immagine, che ricorreva rarissimamente nella vita; forse cinque o sei volte, per i diseredati addirittura una soltanto.
Da ciò lo sforzo di riassumere la propria personalità d’innanzi all’obiettivo col massimo di atteggiamenti simbolici. I borghesi sanno già di dovervi trasferire la prova del proprio decoro sociale, e sono perciò tradizionalmente impalati, coi vestiti ben abbottonati, cani, bastoni e le bottiglie in secondo piano. Non è così per i ceti subalterni, per gli artigiani, gli agricoltori o i proletari, come quelli che davano vita alle società per la buona tavola; forse con la complicità del vino stesso – stavolta esibito chiaramente – i gesti si fanno più dinamici e significanti, anche se anchilosati dai due secondi di posa. Barbe da letteratura russa, sguardi aggressivi nelle macchine, strumenti e oggetti simbolici mostrati… tutto fa pensare che Negri fosse in certo modo sopraffatto dall’esplosione mimica che si trovava dinnanzi.
È chiaro che egli non faceva nessun sforzo «compositivo» (indicativa è la famiglia contadina con cui si chiude questo nostro capitolo) e che le sue intenzioni narrative non valicavano in nessun modo, nella logica operativa, il desiderio di ottenere un semplice documento, che stampato in parecchie copie sarebbe poi stato distribuito ai soggetti. Tuttavia è innegabile l’estrema attenzione tecnica nella soluzione del problema: i gruppi sono sempre su lastre 13×18 o 18×24 e nessuna di esse risulta mai sfuocata o mossa. Spesso il teleobiettivo isola le persone dallo sfondo arboreo. Vi è come una specie di rigoroso metodo scientifico anche nelle riprese ai gruppi, ed è questo che in pratica ha permesso al patrimonio ottico creato da Negri di giungere intatto fino a noi, oggi. Nella consapevolezza del valore dell’immagine in prospettiva storica, sta anche un altro motivo della superiorità del Negri sui fotografi che probabilmente operavano in Piemonte negli stessi anni. Alla «creatività» quale noi l’intendiamo – e desideriamo – nei fotografi d’oggi, dobbiamo sostituire quindi un altro tipo di valore, quando osserviamo delle foto come quelle qui pubblicate. Cioè la possibilità di un suggestivo recupero visivo di momenti, uomini e strutture trascorse, a patto che il fotografo-testimone di allora sia stato tecnicamente preparato e predisposto personalmente alla curiosità. Dietro ogni baffo, ogni busto di donna, ogni cappello o poltrona (dietro ogni volto dei collegiali implacabili) noi possiamo iniziare oggi una certa indagine antropologica, far partire una serie di induzioni allargate verso tutti i settori delle scienze umane. In certo modo, ci sentiamo di invitare l’osservatore di oggi ad un intervento di lettura «attiva» partendo da una qualsiasi delle fotografie. Il messaggio di Negri è dunque di tipo nuovo, richiede una disposizione investigativa nell’osservatore, si presenta insomma come una sorta di «opera aperta». Sarebbe sbagliato non apprezzare questi meriti, voler cioè subordinare la grandezza di Negri alle convenzioni scontate del «soffio artistico».
PUBBLICAZIONI ANNI 60 | FRANCESCO NEGRI
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