testi anni 2000
in “Stanislao Farri, memorie di luce. Fotografie 1943-2003”, a cura di Sandro Parmiggiani, Skira, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 9 febbraio – 23 marzo 2003), Milano-Ginevra 2003
Leo afferma di inseguire da anni il gioco delle nuvole in cielo. Da quelle di Stieglitz a quelle del suo amico Ghirri, ne conserva tante nella memoria e ne trova altre ogni volta che si mette in cammino con la sua camera puntata verso l’alto. Ma attenzione, i miei cieli hanno sempre anche un limite in basso, nell’orizzonte ben visibile. Vorrei che fosse sempre sottile, eppure denso di descrizioni…
Cioè, consciamente o meno, Leo blocca le sue fantasie, e ne rafforza la radice materiale, le lega al suolo. Intravediamo oscuri casali, cacciatori un po’ arroganti, trattori, contadini con la loro falce allusiva… Sotto questi cieli continua a succedere qualcosa. Anzi, quel grande spazio ci appare libero o, come si dice, ‘sfrenato’…proprio perché sappiamo che – al contrario – la nostra vicenda a terra è gravata da obblighi, riti, conflitti, confini. E infatti, per Leo, nelle nuvole c’è un valore astratto. La fotografia astratta è una forma inutile, credo, di comunicazione. Ma allena l’occhio a organizzare altre visioni, altri più mirati messaggi. Ci addestra a far capire altro.
Come tutti i fotografi che hanno una personalità, anche Leo – in forme sempre diverse – ha chiuso entro i bordi dell’immagine, ogni volta, una propria visione del mondo, più o meno esplicita, più o meno gradevole, più o meno ‘innocente’. A cominciare forse da quella lontana coppia appoggiata al muro (Figura ambientata 1950) dove Leo ha voluto mettere in scena se stesso e la sua compagna: una posa con l’autoscatto sotto il lampione della strada, un autoritratto nell’incombente notte di mezzo secolo fa. Una specie di dichiarazione, forse ingenua, dal senso molteplice: non solo d’amore verso una donna, ma di interesse profondo per tutto quello che accade qui a terra. Con o senza le nuvole. Leo racconta del suo stupore improvviso, una specie di folgorazione visiva, in mezzo alle rocce famose di Capo Testa, in Sardegna. Come capire di colpo, di fronte al millenario lavoro della natura – operato senza intenzioni estetiche – quali siano invece le evidenti ispirazioni di molti scultori, di molti costruttori di forme. È interessante la consapevolezza di Farri, che già Charles Henri Favrod aveva chiarito introducendo il fotolibro La forma delle visioni (1998), nel porre una propria visione all’incrocio tra paesaggio assoluto e cultura artistica. Leo vaga sulla spiaggia tra massi e crateri, sempre col cielo come sfondo… e le sue inquadrature finiscono poi in dissolvenza dentro le opere di Moore, di Mirò, di Mitorai o Consagra. Ricordo che Eco, in una non dimenticata introduzione alla raccolta di immagini dedicate da Ugo Mulas proprio a Consagra (‘Fotografare l’arte’ 1973) parlò esplicitamente della possibilità di condurre con la camera una vera e propria ‘critica fotografica’. Anche Leo cerca una sua visione ottimale dei valori che ha di fronte e non solo li assorbe con il proprio ‘attivo’ sguardo; ma ci entra, ne sposta il confine formale all’interno della propria visione, vi accoglie figure di osservatori, architetture di sfondo, aggressive lame d’ombra.
Quindi il senso dell’immagine per noi si fa doppio, o triplo. È un possibile tentativo di arte nell’arte, ma anche di ‘vita dell’arte’, nel tempo e nello spazio di chi ne fruisce. Leo, proviamo a suonare questo violino di Arman in primo piano ? Proviamo a leggere queste fotografie anche come un modo di aprire una nuova dimensione sociale ai solitari gesti degli artisti ?
Leo ricorda che fino a vent’anni fa i ragazzini erano costretti ai bordi dei campi coltivati, per spaventare gli uccelli a grida o sassate… o nelle stalle per scacciare di continuo i mosconi dalle vacche. Poi forse i bambini hanno scioperato, o sono fuggiti in bici, o inseguendo coi loro zoccoli un vecchio pallone afflosciato… a loro volta seguiti in controluce da Leo nel mirino della reflex. Di fatto ora gli spaventapasseri presentano immobili, in mezzo al grano, le loro incredibili figure. Leo ammette che ha voluto cogliere le loro ultime silenziose presenze, prima di un’imminente definitiva scomparsa, (preceduta ovviamente dalla scomparsa dei passeri). Ma perché siamo così attratti da questi grotteschi manichini, come da una specie di istintiva arte povera ? Che cosa veramente ci dicono le comparse silenziose di questa enorme ‘installazione’ distesa per centinaia di ettari?
Sono in realtà i ragazzini dell’altro ieri, tornati a contrastare non solo gli innocenti nemici volanti di sempre, ma tutti noi stessi… ovvero le generazioni ‘adulte’ che passano in auto senza neanche guardarli. Eppure almeno Leo si è fermato, e si è accorto che in fondo qui rivive il nuovo look ribelle (stavo per scrivere il nuovo Country style…). I ragazzi ‘alternativi’ che vediamo con jeans strappati, camicioni a pezzi, cappelli bucati su ciuffi arancione, vecchi occhialacci… che popolano davvero gli scenari metropolitani di tutto il mondo. Che anzi ispirano gli stilisti, trascinandoli ormai a rimorchio nella loro quotidiana trasgressione. Leo quindi, mentre cerca le ultime testimonianze rimaste di un rito agreste ormai moribondo, si ritrova ben altro sui fotogrammi. Un segno ecologico e ‘freak’ al tempo stesso. Quasi un senso ‘circolare’ delle nostre abitudini, dei nostri riti, nel trascorrere delle nostre povere vite. Leo rievoca ancora, i suoi anni di lavoro durissimo, dopo la scelta a favore del professionismo. Arrivavo al sabato sera, e finalmente, cambiavo mentalità… Proprio dalla fine degli anno 50 – e chi scrive lo può testimoniare perché coinvolto personalmente – il dilemma del passaggio dalle ricerche fotoamatoriali ad una scelta di vita condotta integralmente ‘tra e per le immagini’… lacerò molti giovani autori. Tanto per rievocare, Paolo Monti e Mario De Biasi si buttarono decisi nel ruolo di fotografi professionisti. Mario Giacomelli invece, come Pietro Donzelli o Alfredo Camisa continuarono le loro attività primarie: tipografo, impiegato, dirigente d’azienda. I due settori, quasi due opposte culture, non ebbero purtroppo alcun punto di contatto. Nessun fotoreporter come Petrelli o Patellani, incontrò mai Cavalli né Donzelli. Né presso ‘La Gondola’ o tra gli adepti de ‘La Bussola’ ci fu mai chi pensò di esaminare o esporre lavori professionali di autori come Aldo Ballo, poniamo, o Ugo Mulas, o Enrico Pasquali. E quindi – come ha già efficacemente spiegato Mussini in queste pagine – la coesistenza del doppio impegno in rari protagonisti, proprio come Farri, ci appare oggi davvero meritoria.
Io vorrei solo aggiungere qualche indizio in più sulla fatica che Leo si assumeva nelle metaforiche ‘domeniche’ di amatore creativo. Era anzitutto la tecnologia acquisita, la scuola quotidiana di regole messe a punto nei lavori su commissione… che lo avrebbe portato a risolvere sempre, con disinvoltura, i problemi linguistici liberamente maturati nelle sue ricerche. Nelle superfici ‘astratte’, ma piene di concrezioni materiche, che Leo riprende negli Anni 80 a Burano, Boretto, Peschici, c’è la stessa attenzione di resa riconoscibile nei dettagli esemplari dei carri agricoli reggiani…colti per un fotolibro prodotto proprio in collaborazione con Mussini (1981). Ed è in fondo questa la tensione – un mix tra esattezza testimoniale ed esaltazione formale – che troviamo nelle famose foto di architettura o arredamento di Paolo Monti, nel lavoro di Ugo Mulas per Olivetti, negli scatti quotidiani di Luciano Ferri presso lo Studio Villani, nei reportages di Riccardo Moncalvo per la Fiat. Sono solo alcuni richiami alla nostra memoria, alla nostra cultura fotografica, per sottolineare una serie di doppi percorsi che riuscivano solo con difficoltà a coesistere. La committenza industriale ed editoriale, da un lato, almeno fino agli Anni 80 non ha allevato uomini capaci per statura culturale di riconoscere le potenzialità dei fotografi italiani, e di valorizzarle; né d’altronde ai nostri autori più dotati è stato agevole far coincidere le quotidiane ragioni di ‘bilancio’ economico… con quelle della legittima libertà di stile. Ma io credo anche di poter negare ogni presunta schizofrenia nell’opera di Stanislao Farri. Credo di poter riconoscere dietro la policromia delle superfici speculari (Pianzo ‘84, Reggio Emilia ‘83) un ‘gesto’ visivo che chiude quello aperto facendo i ritratti nel ‘71 ai contenitori in vetro della Bormioli. E la lunga serie, sempre a colori, di lamiere, imballaggi, tracce di vernice, incerti sguardi – ma vivissimi perché asimmetrici, disarticolati – cela in sé, come una memoria, tutti gli attrezzi, le macchine, i prodotti che Leo ha ripreso per innumerevoli cataloghi, o annunci pubblicitari. Se ci allontaniamo da quel riflesso informale, ecco che possiamo riconoscere il grande secchio del formaggio, sospeso da secoli sul fuoco; mentre con un altro salto, o zoomata, capiamo che le dolorose ferite in primo piano su una superficie di terracotta, fanno parte di un aggraziato ‘casello’ di lavorazione, in un altro caseificio. Infine: se quella drammatica bruciatura fotografata da Leo a Chioggia sulla fiancata candida di un furgone frigorifero… narrasse l’epilogo di una trasferta iniziata proprio in un caseificio del Reggiano ? Tutto sembra confondersi, ma a tutto si può offrire una spiegazione. Così le trame formali di Leo possono contenere tutti i percorsi della sua vita piena di ‘visioni’. Che è contemporaneamente – se vogliamo – tutto l’itinerario culturale della fotografia italiana, lungo la seconda metà del Novecento. Leo sorride, con un fondo amaro, osservando alcune delle ‘elaborazioni grafiche’ accumulate in decenni di esperimenti dentro la camera oscura. Separazione di toni, granulosità esasperata, rilievi più o meno marcati nei contorni, solarizzazioni sul negativo o sulla copia positiva, sviluppi colati sulle stampe con (apparente) casualità. E poi il mosso, tradizionale icona simbolica del dinamismo… sempre a confronto con un dettaglio supernitido, per rafforzarne la percezione. Insomma un vero catalogo della creatività ‘pre-digitale’. Oggi si fa tutto in un attimo, coi programmi tipo Photoshop. Si reinventa il mosso sul computer, calibrandolo come lo vuoi, a partire da una foto normale. Vuoi mettere ? Allora io partivo dal soggetto. Con l’elaborazione grafica, io volevo fargli dire altro. Cose nuove; e con un senso diverso. In tal modo, ancora una volta, gli antichi sforzi di Leo in camera oscura ci permettono di rileggere anche un capitolo essenziale dell’ ‘ideologia’ fotografica. La distruzione della riconoscibilità, che in modi più o meno radicali ha assillato i fotografi autori d’ogni tendenza. La distruzione ‘parziale’ dei tratti o dei toni dell’immagine (che rimandano al momento dello scatto, al suo contesto) corrisponde alla volontà di annullarne i valori storici o, come si è detto, testimoniali. Non è il volto, o il nome di quell’atleta che mi interessa, sembra urlare Leo (coi suoi antichi colleghi) dietro la porta del suo laboratorio. Non è quello spettacolo, quel balletto che voglio rievocare. La cronaca, se mai è stata tale, si rifugia nell’angolo, inseguita da una piccola folla di Simboli assoluti. La Danza, la Corsa, il Salto, la Ruota, la Spiaggia. Sulle pagine di vecchie riviste fotografiche, sulle pannelli scomparsi di lontane mostre, i fotografi hanno condotto per mano i loro Simboli, li hanno messi in gara con altri simili, hanno litigato per notti intere, e per intere generazioni. Leo, mentre conduceva con raffinatezza la sua opera di professionista ‘artigiano’ è stato protagonista per quasi quarant’anni sulla scena della fotografia artistica internazionale. E forse – suo malgrado – apprezzato proprio per le opere più marcatamente ‘soggettive’. A qualcuno che critica il suo esagerato eclettismo, Leo risponde subito. Ho sempre avuto bisogno di libertà. E ho sempre fatto quello che ho sentito, che ho voluto.
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