testi anni 2000
in “RSF”, rivista on line della Società Italiana per lo Studio della Fotografia, 2008
Milano, Roma e Torino hanno visto riproporre in tre diverse mostre l’opera fotografica di Ugo Mulas. E lo sviluppo di una personalissima concezione dell’immagine, drammaticamente interrotta dalla scomparsa, nel 1972, a soli quarantacinque anni. Alla Scena dell’Arte si riferisce soprattutto – ma non solo ad essa – la ricerca complessiva operata dal curatore Pier Giovanni Castagnoli. Mentre nei due iniziali momenti espositivi – che potremmo definire parziali – di Milano al PAC e di Roma al MAXXI (dicembre 2007 – maggio 2008 ) si trattava di due diversi capitoli del viaggio esistenziale, oltre che visivo, condotto da Mulas al fianco dei pittori e degli scultori più noti sulla scena internazionale tra la metà degli anni 50 e la fine dei 60, a Torino i due spezzoni sono apparsi ricomposti ed integrati. L’esposizione alla Galleria d’Arte Moderna (giugno-ottobre 2008) è risultata più ampia, è allestita con sorprendente rigore scenografico, e ha offerto – per la prima volta – la visione di 100 fotogrammi a colori invertibili (diapositive) formato 6×6. O meglio dei loro perfetti duplicati digitali riproposti all’altezza dell’occhio, nel formato reale, con retro-illuminazione. Le dia 6×6 che Mulas era invitato a produrre in parallelo alle sequenze in bianconero 35 mm dagli artisti stessi, da galleristi ed editori, sono un interessante complemento degli ingrandimenti stampati da Ugo stesso… secondo una precisa esigenza in vista delle successive riproduzioni fotomeccaniche. (L’autore si adattava cioè, non sempre volentieri, a ripetere con l’Hasselblad di medio formato, in composizioni formali più meditate, i prediletti scatti già eseguiti con la Nikon. Una variante operativa che oggi le tecniche di ripresa digitale rendono superflua). Ma la presenza di questi materiali, essenziali per la comprensione del ‘sistema’ professionale che coinvolgeva la produzione e la promozione degli artisti, ci permette di parlare in tono non burocratico dell’ archivio Mulas, oggi. Nell’ampia sede milanese di viale Porta Vercellina 9, Melina e Valentina Mulas, figlie di Ugo (e appena bambine alla sua morte) proseguono quotidianamente un lavoro di ordinamento e studio iniziato più di vent’ anni fa… quando Antonia, la loro madre – ella pure notissima fotografa – ha affidato loro la continuazione del lavoro intrapreso subito dopo il 1972. Antonia (Nini) Mulas, ha costituito il tramite essenziale, dopo decenni di condivisione produttiva con Ugo, non solo per la memorizzazione di vicende professionali e private, ma per il riepilogo di una straordinaria evoluzione linguistica, spesso segnata da profondi travagli culturali…
Pier Giovanni Castagnoli (come si è capito visitando la mostra torinese, o sfogliando l’ampio volume Electa uscito in dicembre) ha privilegiato in Mulas l‘indagine diretta proprio sul sistema dell’arte, in modo peraltro coerente alla propria formazione e all’incarico di vertice alla GAM. (Da citare per l’occasione anche il nuovo catalogo Photocolors con testo di Tatiana Agliani e Uliano Lucas, edito dalla Galleria). Ma a Valentina e Melina oggi la circostanza serve per ribadire un principio di fondo che ha ispirato il criterio di ‘catalogazione’ per tutte le opere del padre.
Si è trattato – qui sta la novità relativa – di ordinare non i singoli fotogrammi di ripresa, ma le serie omogenee create intorno ad uno stesso soggetto. Quelle che proprio Mulas considerava come vere ‘unità tematiche’ da archiviare erano poi, in realtà, tutte le sequenze ben leggibili in un provino di 36 scatti 24x36mm o di 12 nel medio formato 6×6. E’ rarissimo il caso della presenza, dentro la serie dei rulli-sequenze, di isolati soggetti alternativi. Così ancor oggi – conservando il principio ispiratore di Ugo, all’origine anche del suo metodo operativo – l‘ unità di archiviazione è unicamente ‘il provino’, cioè la stampa per contatto di tutti i fotogrammi. O meglio la serie omogenea dei rulli provinati, con le ovvie differenze tra uno scatto e il successivo. E i soggetti, a prescindere dalla collocazione temporale, restano poi comunque alla base di una definitiva classificazione tematica. Esempi: i ritratti di Eduardo, la Factory di Andy Warhol, la Torre Velasca o i villaggi della Sardegna costituiscono per Mulas altrettanti momenti ‘frazionati’ di un progetto che oggi va studiato, oltre che archiviato, in modo organico. A proposito dell’idea di archivio, sono illuminanti i concetti espressi da Ugo nel famoso colloquio con Arturo Carlo Quintavalle, in previsione della grande mostra personale poi realizzata, ahimé postuma, nel 1973 per l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma.
L’ipotesi era di raccogliere un mosaico di luoghi e situazioni milanesi, da mettere poi a disposizione di ricercatori, studenti, di tutti cittadini, insomma…
“…Vorrei proprio fare questo tipo di lavoro, in tutte le direzioni, neanche con un preconcetto, di fotografare solo le cose negative, capisci, no, ma proprio per andare alla ricerca di tutto quello che è significativo, ma proprio come struttura portante poi la vita. Chè poi la gente che c’è è sempre casuale, è gente che va, che viene, che passa, che muore, che vive ecc. e quello che rimane sono queste strutture. Questa era per me l’ idea di lavorare fotograficamente sulla mia città, un’idea che temo purtroppo, per questa malattia, di non poter portare a termine…”
Dunque l’archivio Mulas appare oggi un modello – anche se non ortodosso – di ordinamento secondo la visione dell’autore, secondo il suo inedito criterio di produzione. A parere di Melina e Valentina, Ugo lavorò da subito inseguendo un progetto di ‘grande memoria’ che tutta la sua opera avrebbe costituito. E’ opportuno qui almeno accennare che i suoi inizi, tra il 1952 e il 1960, trascorsero dentro un tentativo di intervento nel fotogiornalismo italiano… e nell’ illusione di una vittoria della qualità. Qui Mulas si trovò al fianco di colleghi operanti a Milano, come Carlo Bavagnoli, Mario Dondero, Alfa Castaldi, Jacqueline Vodoz; oppure residenti a Roma come Caio Garrubba, Franco Pinna, i fratelli Antonio e Nicola Sansone. Tutti immersi in un’impari battaglia verso editori culturalmente impreparati, o redattori di rotocalchi troppo attenti alle banali vicende dello star-system. Tra le eccezioni L’Illustrazione Italiana, storico mensile diretto da Pietro Bianchi ove Mulas vide pubblicati alcuni magnifici portfolio. Subito dopo, negli anni 60, venne anche l’esplorazione ‘montaliana’ delle Cinque Terre, i ritratti ai nostri poeti e scrittori più importanti, la collaborazione con Pirelli, di cui Vittorio Sereni dirigeva l’house organ. E con Olivetti, di cui interpretò l’atmosfera nelle fabbriche, e il mondo in ascesa dei designer. Dai servizi di moda per Vogue (un capitolo ancora da riesaminare) all’ architettura per Domus, alla collaborazione col Piccolo Teatro, Ugo Mulas condusse sempre il proprio memorabile impegno di fotografo free lance senza preclusioni di soggetti o committenze. E questo in parallelo con l’indefessa narrazione della vicenda artistica, dentro e fuori i confini italiani; con uno sguardo sempre inedito verso i momenti segreti della creatività, normalmente preclusi a chi osserva le opere, una volta concluse. Il gesto ormai notissimo di Lucio Fontana è solo l’ emblema della sua ostinata presenza sugli atelier-palcoscenico di altri grandi creatori come Calder, Consagra, Melotti… o dentro le nevrotiche performances dei nuovi eroi della Pop Art americana: Rauschenberg, Dine, Oldenburg, Lichtenstein, Warhol e altri. (Ma gli altri saranno poi anche i critici e i galleristi alle Biennali di Venezia, e persino gli addetti al lavoro di trasferimento delle opere, oppure all’allestimento delle sale espositive). Sulla Scena dell’Arte Mulas realizza anche eccezionali ritratti, come quelli – in sequenza – dedicati a Duchamp, Calder, Melotti, Cavaliere… o gli affettuosi omaggi iconici ai venerabili De Chirico o Morandi.. Verso tutti gli artisti Ugo sembra voler scoprire oltre i gesti visibili, anche i processi mentali, i percorsi inconsci che permettono la creatività. Anzi, la lunga testimonianza di Ugo verso gli ‘artisti’ sembra addirittura prevalere sul libero dispiegarsi della sua intima fantasia visiva. Possiamo anche dire, a questo proposito, che egli si sia trovato a percorrere obbligatoriamente una fase di transizione professionale, dove la committenza editoriale condizionava il suo linguaggio di fotografo autore dentro modelli comunicativi obbligati. La simbiosi di Ugo con gli artisti (o per lo meno con i suoi contemporanei più fortunati, e amici) lascia trasparire anche, a mio parere, un’ambizione di libertà ed autonomia che allora impugnando la fotocamera non si poteva raggiungere appieno. Sulla Scena dall’Arte Ugo ha recitato nei fatti una parte da protagonista, ma senza illudersi di avere il nome sui manifesti. (Inutile sottolineare, più di un quarantennio dopo, che la libertà artistica del fotografo ha raggiunto traguardi di livello innegabilmente superiore…). Verranno poi le Verifiche, il capitolo notissimo di riflessioni intellettuali, non solo estetiche, nel cuore della sintassi del linguaggio fotografico. Un ripensamento estremo cui Ugo si dedica nei mesi drammatici della sua difesa contro il male inesorabile. Secondo alcuni critici, sarebbero proprio – e solo – le Verifiche a segnare il punto più alto e autonomo del percorso artistico di Mulas, a liberare le sue ultime volontà innovative. In realtà, come abbiamo visto, tutta la (troppo breve) vicenda del nostro autore si sviluppa nel tentativo di superare i margini concessi ai fotografi professionisti dai meccanismi della comunicazione… lungo gli anni tra il secondo dopoguerra, le illusioni libertarie del 68, ed il successivo strapotere televisivo, ancor oggi in apparenza vincente. Ma oggi, il nuovo lavoro di ricerca dentro l’archivio di Ugo Mulas, può assumere un ruolo inedito nel capire i tempi e i modi dell’evoluzione di tutta la nostra cultura fotografica. Melina, Valentina, col gruppo di stagisti che spesso le circonda – ordinando i preziosi ingrandimenti vintage o restaurando le impallidite slides a colori con attente riproduzioni digitali – si trovano di fronte a una duplice opportunità: rispondere alle continue richieste di editori e istituzioni museali che desiderano riproporre gli appassionanti momenti della creazione artistica in Europa e Usa quarant’ anni fa… ma anche recuperare secondo criteri rinnovati molti lavori pubblicati parzialmente, o addirittura ‘scoprire’ valori di linguaggio attuale dentro sequenze accantonate, non ‘sfruttate’ dall’autore.
E il collezionismo? Le sorelle non nascondono un relativo scetticismo. Ugo morì prima di poter mettere singolarmente in vendita le sue stampe, dagli inconfondibili toni profondi, frutto di giornate (e notti) trascorse in camera oscura. Ed esse sono rimaste – quasi tutte – come traccia, intoccabile riferimento per produrre altre copie ‘moderne’, le sole che circolano tra i collezionisti, o che vengono proposte nelle aste. In realtà nessun’opera fotografica quanto quella di Ugo Mulas ci appare nata per divulgare un proprio messaggio ‘interno’ all’immagine, e non fermo alla sua superficie-oggetto. Essa continua a vivere più sulla pagina stampata, cioè ‘riprodotta’ (come lui voleva) che dentro una privata cornice. In definitiva, più nelle percezioni e riflessioni offerte che nelle quotazioni raggiunte.
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