testi anni 50
in “Ferrania”, luglio 1958
Io credo che nessuno di noi, davanti ad una copia fotografica, sappia trattenere quel moto dell’immaginazione che consiste nel figurarci idealmente il fotografo – solitamente una persona fìsica, talvolta, se lo conosciamo, la mentalità – alle prese col soggetto. Era lì, diciamo di dentro, e ha scattato: il momento dello scatto è individuato «storicamente» come il vertice della sua emozione. In pratica quindi, l’osservazione di una fotografia non si può disgiungere da una rappresentazione istintiva del concreto rapporto che l’autore dovette vivere con la realtà da lui accostata; e ciò è tanto più naturale quando l’immagine ci presenta situazioni umane o «strutturali» che anche a noi osservatori pare di aver già percepito sotto l’aspetto visivo e che pertanto riconosciamo molto facilmente come proprie alla nostra sensibilità, proprie quindi anche al «nostro» rapporto con quei soggetti. Ora, una cosa appare necessaria: che questa indissolubilità – logica e materiale – tra fotografo e soggetto, questo loro dialogare ed essere presenti contemporaneamente perché si effettui l’incontro non occasionale della creazione, vengano in ultima analisi a configurare nuovi metri di valutazione estetica. Uno dei concetti che, finalmente e coraggiosamente, si fanno strada anche nella nostra fotografia è – per cominciare – quello di accentuare il giudizio sulla personalità dell’autore, anziché sulle lucide copie che isolatamente egli ci propone. Ma perché noi, mentre giudichiamo con più spontaneità un romanzo che non il carattere del romanziere, un quadro o un film prima che non il pittore e il regista, ci facciamo prendere, in un fotografo, dall’interesse verso i «suoi» soggetti, verso il modo con cui aggredisce un fatto e ce lo viene a raccontare, verso le sue inclinazioni e la sua cultura di uomo? Non pensiamo, bassamente, che sia per pettegolezzo: in verità bisogna avere il coraggio di dire con fermezza che una fotografia ha dietro di sé sempre una sollecitazione dialettica della realtà. Perciò noi non giudichiamo più il parto di certi impulsi latenti – per istinto o cultura – dentro a un artista, ma giudichiamo il suo modo umano di mettersi a contatto col soggetto, in un certo momento cronologico che è individuabile e che pure a noi può essere appartenuto. Insomma, è bene capovolgere i metodi assolutistici, per cui si giudica con criteri astorici, pertanto ahimè privi di spazio e di tempo, il frutto di un intelletto. Per la fotografia no, davvero: che ci importa delle «sembianze» al bromuro d’argento, dei loro formali pregi «interni»? Che ci importa, se non ci è dato esprimere un giudizio che è di natura storica, e quindi anzitutto umana, sul rapporto tra il fotografo e «quel» soggetto? Noi sappiamo che quel rapporto c’è stato; che prima ci sono state delle intenzioni, dei tremori emotivi, degli interessi professionali, o sociali, affettivi, che hanno portato l’autore in una certa situazione. E allora perché non andare più in là, e giudicare quanto sia stato degno, o «funzionale», questo accostamento? È da notare, d’altronde, che tale esigenza nasce proprio dalla constatazione dell’importanza sociale che ha la fotografia, dalla scossa che provoca – nell’osservatore privo di interessi artistici – anzitutto il «soggetto» riprodotto; proprio perché è troppo «pericoloso» socialmente quello che si fotografa, noi dobbiamo desiderare che nasca una specie di nuova moralità che guidi alla scelta del soggetto, allo scatto, al modo di traduzione formale. È una difficile responsabilità dell’artista, questa, che peraltro – col diffondersi della fotografia «narrativa» di un certo fatto, alla maniera del reportage di informazione giornalistica — non si può fare a meno di giudicare e misurare come evoluzione.
Si comincia già con la scelta della situazione in cui introdursi, poiché dalla preferenza per l’uno o l’altro dei lati della realtà circostante nasce la personalità espressiva del fotografo. Lo giudicheremo in base ai «casi di coscienza» che le sue opere ci avranno creato: e sarà poi ingiusto, o «immorale» escludere dalla valutazione delle immagini il «perché» della presenza del fotografo, là piuttosto che altrove, e quindi là spinto da qualcosa che deve confidarci. Cioè, il suo «caso di coscienza».
Si può dire quindi tranquillamente – senza tema di fare della retorica sul concetto di emozione – che al fotografo compete un più alto grado di umanità morale che agli artisti impegnati entro altri schemi di espressione. Ma per trarre le conclusioni di un simile ragionamento bisogna anche avere la risolutezza di negare la positività di qualche periodo della fotografia italiana: le ha senz’altro nuociuto essersi chiusa per decenni entro interessi estetici che nessun conto facevano della «umanità» del fotografo, del suo quotidiano e scottante inserimento nella società …
Macchina a tracolla, egli si dirigeva alla ricerca di formalismi compositivi, di giochi di stampa, di equilibri tonali, tutti fattori esulanti dal suo contatto diretto col soggetto. Le teorie di immagini siffatte, che riconosciamo negli annuari d’anteguerra, e che pure ci è dato trovare sfogliando i cataloghi dei salons d’oggi, testimoniano non soltanto la distanza dalla scoperta dello «specifico», ma la sostanziale estraneità degli autori rispetto alle possibilità che il mezzo a loro disposizione aveva nella fondamentale sfera documentaria. Ma attenzione, i tempi cambiano: si affrontano ora gli uomini, i drammi sociali e la commedia della vita porgono visioni di grande forza concettuale anche se di nessuna indulgenza esteriore. Eppure i nostri fotografi sono restii ad assumere responsabilità umane. Noi aspettiamo trepidanti l’età nuova della fotografia, e nell’orecchio ci risuonano le frasi di Steichen che addita la famiglia dell’uomo: ma gli esteti non si commuovono. Sono cambiate le tecniche e i soggetti, ma non ancora le finalità specifiche per cui si scatta. Forse che una madre calabrese – fotografata con compiacenza di bianconero e leggiadramente posata nell’angolo in basso a destra della copia – è differente nella sostanza dalle decine di uova, cipolle e monache al mare che finora rappresentano l’apice del «gratuito» fotografico? Ci sarà forse, è vero, una condizione psicologica – quella «amatoriale» – che in nome dello svago, delle evasioni, continuerà a rifiutare l’assunzione delle responsabilità sociali che investono sempre chi guarda in un mirino. Ma a parte questo ostacolo, o forse proprio a sua causa, il problema fondamentale della nostra fotografia sembra quello di vivere con maggiore impegno le proprie esperienze. Talvolta manca anche una base culturale, si obietterà di sicuro, ed è vero: ma laddove la cultura, specie se libresca od «orecchiata» finisce col caricare le opere di ermetismi che è bene non confondere con la profondità, la forza delle commozioni (anche quando sono istintive, o troppo eterogenee) trova sempre una scorciatoia di correttezza formale, per esprimersi. Affermare che gli esteti devono commuoversi d’altra parte non significa auspicare le rivoluzioni politiche attraverso le immagini: ed è abbastanza evidente che l’impossibilità stessa di modificare la realtà nel suo interno per fini polemici, garantisce una base di verità documentaria alle immagini. Ma un’esortazione sembra opportuna, per render più dignitoso l’esercizio della fotografia che con un po’ di eufemismo si chiama realistica: da questi anni in poi non ci sarà più permesso di «scherzare» con gli estetismi intorno a fatti ed argomenti ideali che non tollerano l’accademia. Allo stesso modo in cui il limite del neo-realismo cinematografico – e a tratti forse di quello letterario – si è verificato all’apparire di opere in cui la materia diveniva pretesto meccanico per esercitazioni di stile (ma cos’è lo stile, se non malafede, in un movimento che ne rifiuta gli schemi?); allo stesso modo il declino della nascente fotografia neo-specifica potrebbe essere rappresentato da una scarsa consapevolezza del significato di un soggetto per sé stesso, al di là appunto delle fatture stilistiche. Guai se i fotografi italiani rimanessero stretti alle corde dalle prevenzioni cui li ha abituati finora l’attività… agonistica dei concorsi. I sintomi attuali di rinnovamento potrebbero tornare ad essere il simbolo della crisi.
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