testi anni 60

L’archivio del mese


in “Foto Film”, ottobre 1966

24 settembre 1966. Non saranno mica le esalazioni dell’acido ace­tico, spero. Perché faccio sempre dei sogni angosciosi. Ecco qui. Dopo aver letto su una rivista americana delle favolose anticipazioni sulla registrazione elettronica delle immagini (con una minuscola telecamera che raccoglie su nastro decine di ore di visione continua dell’operatore) e la facile previsione che l’immagine fotografica sarà sostituita da inquadrature vol­ta a volta prelevate e riprodotte appunto dal tv… me ne vado a dormire. Subito la scena si apre su una avveniristica redazione di settimanale, dove dalla scrivania pomposa di ‘Picture Editor’ io continuo a spedire cameraman obbedientissimi a ‘guardare’ gli avvenimenti. Col loro elmetto bianco che contiene la telecamera e il nastro — e un semplice mirino posto davanti agli occhi — torneranno con inquadrature magnifiche, da far passare in tutta calma e scegliere tranquilla­mente premendo un bottone dinnanzi al teleschermo. Infatti tor­nano, e mi scaricano ghignando gli elmetti sulla scrivania, chi­lometri di nastro che cominciano a scorrere. Ecco l’elezione di Miss Italia, ripresa in continuo da otto operatori, sessanta ore di proiezione; dall’alto, dal basso, contrastato, morbido, tutti primi piani, tutti campi lunghi, le cosce, gli organizzatori, i baristi, i particolari delle guêpières. C’è tutto. Arriva ora il gruppo che ha ripreso i campionati di calcio: la stessa partita dai quattro angoli, con ottiche diverse, sedici ore. Da altri el­metti esce tutta l’inaugurazione della Fiera del Levante, quarantadue ore. La conferenza stampa sulla gravidanza di Sofia Loren, sei ore e mezza. Angosciato e solo, nel palazzo ormai deserto, continuo a far passare avvenimenti. Le stesse cose mille volte, con visuali diverse, in un silenzio agghiacciante. Non capisco più neanche qual è il momento per bloccare l’immagine. La sen­sibilità mi è crollata, gli occhi mi bruciano, mentre già sento i passi di altri cameramen che arrivano con nuove bobine da vedere. Tutta la responsabilità è mia, maledizione, Ho tutto sott’occhio da punti diversi, con una ubiquità visiva che è mira­colosa; eppure devo sempre scegliere, devo decidermi a fer­mare qualcosa… quello che mi sembra l’essenza, l’immagine decisiva. Ah mio Dio, molto meglio ai tempi delle Leica, po­chi fogli di provini da 36; o addirittura del vecchio 6×6, pochi rulli da 12. Cosa faccio, cosa faccio? Sono esausto. Mi escono frasi inarticolate: “E’ arte, la mia… è arte… non la vostra”. I cameramen si allontanano sempre col loro silenzioso sogghi­gno. Mia moglie mi sveglia, mi accarezza. “Sì caro, certo, è arte. E’ arte, la tua. Stamattina devi smaltare gli ingrandimenti del Calzaturificio Pogliaghi, ricordi?”.

 


in “Foto Film”, febbraio 1967

25 gennaio 1967. Riattacco il telefono e rimango lì seduto, come un imbecille. Mi ricordo con gran chiarezza il colloquio del mese scorso con Crosti, il direttore del mensile Nuova Illu­strazione, quello lanciato con lo slogan «…le immagini di clas­se per i lettori di classe». Dopo mezz’ora di anticamera, si accomodi prego, lei ha già dei servizi, bene bene, vediamo, Giusy non ci sono per nessuno. Avevo aperto con sollecitu­dine la mia borsa in cuoio grasso, comprata per l’occasione, con tutta la serie delle mie riprese migliori, ristampate nel pratico formato 24×30 su cartoncino al clorobromuro di gra­devole intonazione nero-calda, e raccolte poi negli ideali conte­nitori a busta in politene. Tutto c’era, tutta la fatica dei miei anni e della mia mente. Il campione che piange, i soldati israeliani in una nuvola di polvere, la famiglia romana sulla vecchia Balilla, Marilù Tolo e il playboy… ma soprattutto le drammatiche fotostorie con soggetti pieni di umanità: emigrati in Germania, banditismo In Sardegna, i problemi del traffico nelle città, Beppino l’orfano venduto. Eccetera, eccetera. Molto bene, lei ha della stoffa, complimenti: sono questi i lavori che ci interessano, noi puntiamo sull’uomo. Qualche foto l’aveva guardata dal lato sbagliato — come talvolta capita in certi paesaggi o dettagli — ma non per questo avevo perso l’entu­siasmo, che quelle parole mi avevano fatto fiorire dentro come una rosa a maggio. Ecco avvicinarsi dunque il mio momento, pensavo quasi tremando, il momento delle mie proposte nar­rative: servizi magistrali, impaginati benissimo, stampati coi neri pieni, rispettando le mie inquadrature… pagati con dignità. Ancora congratulazioni, il suo stile nervoso mi piace: ci vedre­mo presto, appena ho il servizio che fa per lei la faccio chia­mare. Prego, s’immagini, grazie a lei, arrivederci e ancora complimenti.
E adesso cosa mi telefona proponendo delle riprese in Valmalenco di rari fiori di montagna a colori, con lenti addizio­nali, per il servizio “Flora che scompare”, sessantamila con la trasferta a mio carico?

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