testi anni 60
in “Dibattito”, inserto di “Foto Magazin”, settembre 1962
Nella linea dei nostri propositi culturali, la definizione – e l’inquadramento teorico – che Casiraghi ha elaborato circa i valori specifici dell’immagine fotografica, assume un preciso ruolo programmatico. Costituisce cioè l’indispensabile premessa ad una scoperta graduale dei nuovi metodi critici, entro i quali potrà stabilirsi una graduatoria di giudizi sugli autori e sulle scuole stilistiche.
Ciò finora è avvenuto, inutile dirlo, sulla base deprecabilissima delle intuizioni a livello emotivo; oppure attraverso un bagaglio di definizioni prese a prestito dalla critica cinematografica, o rimbalzanti sull’eco della critica alle arti figurative tradizionali… In ogni caso, senza tradizione di pensiero, senza pienezza di interessi.
Basti pensare all’assurda vigente partizione tra i fotografi di cui mette conto parlare come “artisti” (le cui immagini cioè sollecitano delle preordinate costanti figurali a carattere “estetico”) e i fotografi che, dedicandosi ad un lavoro documentario, appaiono privi di genialità espressiva, ovvero non riescono a sollecitare lo schema di passiva attesa della critica. Ora si tratta invece di operare una evoluzione del nostro metro di valutazione, il che richiede anzitutto una grande autonomia di indagine, e basi nuove di spregiudicatezza nell’analisi delle produzioni fotografiche: la critica deve cioè ricercare anziché verificare, e muoversi con termini adeguati nel panorama nuovo – che abbiamo visto delineato nelle pagine precedenti – fatto di processi scientifici e oggettivi. Rifuggiremo con prontezza, quindi, dall’accademia delle diatribe sulla fotografia-arte… e sarà tuttavia nostro programma il ricercare se e quanto i dati dell’immagine ottica consentano di venir collocati come momento di un’attività generalmente creativa. Questo ci pare anzitutto il problema: enucleare le fasi del processo fotografico ove l’autore riesce ad inserire nel noto circuito camera-oggetto qualcosa che si riconosca poi nell’immagine in termini di “personalità”.
Così potremo subito osservare che ad una creazione di immediata dialettica con l’oggetto (nel grande reportage d’azione, ad esempio) si può contrapporre una più meditata costruzione dell’immagine attraverso un allestimento-finzione dell’oggetto. La presa istantanea (non parliamo di otturatore, parliamo di processo mentale); il ritratto “cosciente”; la formale rappresentazione di fenomeni ottici senza riconoscibilità di oggetti… ecco tre esemplificativi momenti, in cui a parità di procedimento tecnico, le intenzioni dell’autore sono diverse, e risultano poi diversamente riconoscibili nell’immagine. Trasporteremo dunque qui, nel terreno delle intenzioni rappresentative, tutti i nostri criteri di giudizio critico: faremo cioè una discriminazione tra fotografia veramente tale (scusate una certa ambiguità), cioè “funzionale”, e fotografia “strumentale”. E questa comincerà ad essere – se amiamo la polemica – una sorta di iniziale tendenza.
Qual è la fotografia funziona le dunque, sulla base della definizione che Casiraghi ci fornisce dello specifico? È quella che salva l’oggetto, cioè informa l’osservatore – attraverso la riconoscibilità – dei dati raccolti direttamente dalla camera. Il problema dei cosiddetti interventi creativi al momento della ripresa (ad esempio, separazione dei campi con una data messa a fuoco) o in laboratorio (contrasto, inquadratura, tono) si risolve vedendo appunto se essi giovano alla riconoscibilità, cioè suggeriscono delle preminenze formali in armonico rapporto con quanto l’immagine deve dire.
E c’è all’opposto una necessità di polemizzare contro ogni immagine dove si assista ad una distruzione dei dati oggettivi (separazione tonale, flou, granulazione voluta), cioè ad una intenzione di utilizzare parzialmente l’immagine ottica, al di fuori della specifica necessità dei dati stessi: tutto ciò può naturalmente portare a risultati di grande interesse, che appartengono tuttavia al piano pittorico, o alla grafica… sono cioè elaborazioni soggettive non fotografiche, oppure casualmente fotografiche. (Vorremmo in pratica rifiutarne l’esame critico, dentro i termini noti dello specifico fotografico. Così come vorremmo precisare che non basta – evidentemente – l’uso momentaneo del mezzo ottico, o dell’emulsione, per giungere ad immagini funzionali; disegnando su una lastra di vetro e mettendola poi nell’ingranditore per ottenerne copie grandi e in negativo, non si fa certo della fotografia).
Torniamo invece alle immagini specifiche, e vediamo di definire in esse alcune costanti visuali, che ci permettano poi di tentare la discriminante critica. Per Edward Steichen i due grandi indirizzi della fotografia corrono entro lo sviluppo del dettaglio e dell’istante; vale a dire, in termini di maggior generalità critica, che le costanti delle immagini fotografiche risiedono nella dettagliata riconoscibilità e nell’immediatezza (anche una posa di un’ora può infatti risultare immediata, se restituisce in termini di fedeltà temporale l’oggetto). In pratica dinnanzi ad un’immagine fotografica, occorrerà esaminare criticamente la somma di significati, cioè di comunicazioni che entro la obbligatorietà del processo ottico essa saprà farci pervenire.
In tale ambito, la misura del dettaglio sarà la somma di ineliminabili particolari descrittivi che solo un negativo fotografico è in grado di registrare; e l’immediatezza, cioè la momentaneità, sarà l’elemento che ci permetterà una collocazione storica dell’oggetto, ripreso in un attimo irripetibile del proprio sviluppo. Per chiarire meglio sul piano qualitativo, cioè specifico, i due requisiti della fotografia, possiamo ora ben paragonare questa agli altri schemi d’espressione.
Un’istantanea qualsiasi – purché il processo ottico e fisico-chimico sia avvenuto correttamente – ci darà in un attimo e con minuzia descrittiva estrema, un resoconto visuale assolutamente inimitabile. Pagine intere di scrittura, somme di suoni, disegni manuali, simboli grafici, relazioni verbali non riuscirebbero a pareggiarne l’efficacia, in quanto a dettaglio e immediatezza.
Naturalmente, al di là dei bordi della copia fotografica non esiste più nulla: finisce spezzata una fila di visi, o di case… e non sappiamo proprio se e come continui, né la foto ci fornisce indizi logici per una prosecuzione visuale dell’immagine data. Allo stesso modo, di fronte alla perfetta restituzione di un movimento, non sappiamo se e come questo si concluderà, né comprendiamo la fase anteriore del movimento stesso.
(Qui si impone il paragone con la sequenza cinematografica; dove la perfezione ottica, grazie agli spostamenti della camera e al movimento perdurante, ci chiarisce con maggiore logica lo sviluppo del fatto-oggetto. Tuttavia il cinema ha tali difficoltà di restituzione visiva
– la pellicola gira, rimane un attimo il fotogramma sullo schermo e sulla retina, già appartiene alla memoria, né d’altronde è possibile rivedere un film in continuazione, migliaia di volte
– che non si tratta più di immagine, ma di generica emozione ottica e sonora).
Se l’immagine fotografica – perfetta strutturalmente, ma limitata e ferma quanto a svolgimento spazio-tempo – ha dunque con l’oggettività anche una innegabile ambiguità, ecco che il problema critico si sposta ancora: si deve supplire ai dati mancanti dello svolgimento logico con una inequivocabile forza logica di significato. La questione, ancora una volta, non è artistica, ma espressiva: fare che l’immagine fotografica assolva con forza ad una certa funzione sull’osservatore, cioè su colui che a differenza dell’autore non era in presenza della realtà-oggetto.
Ecco, il significato. La dote che riconosciamo, talvolta inconsciamente, in un numero ben limitato di fotografi, o anche in gruppi di immagini di cui non sappiamo l’autore. Il significato rappresenta dunque il vero momento creativo, dove il fotografo dà valore di comunicazione universale al suo scientifico circuito camera-oggetto. Talvolta l’autore non è subito consapevole, talvolta sono gli svolgimenti della storia che legittimano il significato (il ritratto di un uomo la cui gloria sarà postuma, o i morti di una battaglia che risulterà in seguito decisiva e famosa)… ma anche in questi casi, tolto pure il senso di personale creazione, la fotografia riaffermerà le proprie doti di universale stimolo a moti psicologici e spirituali.
Il significato di un fatto viene naturalmente messo in più idonea luce se le foto sono parecchie, se sono un foto-racconto, o se sono raccolte in un volume descrittivo, o se hanno spiegazioni e didascalie. Ciò giustifica l’interesse acuto degli ambienti più qualificati della critica fotografica per la fotografia narrativa, a più immagini; proprio perché in tal modo, superata parzialmente la barriera dell’ambiguità (la muta copia isolata, senza titolo; e in certo senso, senza significato), la serie di foto, ad esempio, il servizio giornalistico, offre con maggior forza un significato generale alla vicenda, armonizzando e unificando i parziali seppur perfetti dati specifici.
Per chiarire qui tutta la gamma dei significati attribuibili alle immagini, non basterebbero volumi; l’indagine si trasferisce nel campo della sociologia, della psicologia della visione, dell’estetica pura. Tuttavia ci interessa riaffermare come il vaglio dell’idoneità di una fotografia quanto a significato, sia legato ad una profonda coscienza di esso da parte del critico. Il che prelude, in un certo modo, all’opportunità della formulazione di una “sintassi del significato”, ove trarre almeno gli elementi più generali di valutazione.
Quando il significato c’è, ed è chiaramente percepito, possiamo dunque dire che la fotografia è valida sul piano espressivo: ma proprio in quanto fornisce un certo significato univoco, l’immagine fotografica risponde col suo stesso mostrarsi ad una quantità di dubbi da parte dell’osservatore. Chi guarda una foto insomma, ne scopre il significato proprio al momento in cui si trova inserito con naturalezza nel processo visivo-conoscitivo che l’autore gli ha predisposto. E all’opposto esistono foto in cui la nitida apparenza dell’oggetto non basta a chiarirci e a donarci il processo conoscitivo dell’autore; sono queste in un certo senso delle fotografie inutili, poiché il pretesto esterno per l’operazione di ripresa non contiene ciò che il fotografo vorrebbe farci sentire. Nascono così in sede critica le più strane congetture: gli oggetti sublimati, le occasioni formali, le stilizzazioni, le idealizzazioni, eccetera… dove invece sarebbe più logico parlare di immagini utili o meno al fotografo, ed all’osservatore.
Atget ed Eugene Smith, ad esempio, sono – su diversi piani – utili: perché le loro ipotesi sui soggetti non appaiono indebolite da contraffatte rappresentazioni. Un vicolo di Atget, come un operaio metallurgico o un bambino di Smith, ci si presentano come tali, affidando il loro significato all’umiltà stilistica ed all’intima eloquenza. Quando invece a proposito del peperone di Weston, sentiamo parlare di forma naturale assoluta, o di roccia, o di nudo femminile, o di fluido generico, riteniamo la foto meno utile: un peperone, proprio perché fotografato (e non cantato in versi, o dipinto) non può che raccontarci di sé in quanto peperone, cioè nei limiti della propria struttura-apparenza. Ogni estranea operazione per un significato extra visuale non fa onore all’immagine, né all’autore.
Tutto ciò pare confermato dal naufragare nel cattivo gusto di ogni fotografia che cerchi di chiamarsi – assurdamente – surreale, o astratta, o metafisica. L’oggettività del processo ottico lega irrimediabilmente ogni visione a dati di concretezza documentaria; l’oggettività della fotografia la rende cioè per eccellenza un’antitesi ad ogni sperimentalismo informale, ad ogni Dada nuovo o vecchio.
(Così ci apparvero davvero ottuse e deprecabili le foto surreali di Man Ray; ad esempio, una donna distesa su un catafalco, occhi sbarrati e capelli biondi ricadenti… mentre l’obiettivo con oggettività per nulla sperimentale aveva contato i peluzzi nelle orecchie, aveva mostrato il rimmel pesante, i capelli unti, persino le pieghe del ferro da stiro sulla tela del palco! Così stringeva il cuore una foto di Cavalli, nudo di donna opulenta, con l’amaro simbolo della caducità appoggiato su una coscia: uno scheletrino didattico di quaranta centimetri, con le vitine nelle giunture, con un ghigno come da talismano, mentre più sotto cominciava un foulard a disegni novecento, anch’esso con le pieghine in vista).
Allora, proprio mentre dimostriamo l’inutilità per la fotografia “specifica” di trasformare il soggetto con manipolazioni “estetiche” dei dati ottici, dobbiamo anche sgombrare il terreno critico dai tecnicismi. Dobbiamo cioè scontare la funzionalità dei momenti ripresa-stampa-lettura; prescindere dalla loro correttezza; rifiutare in sostanza tutti gli apprezzamenti intermedi, estranei tanto alla posizione personale dell’autore quanto alla sostanza dell’oggetto. In armonia con la nostra ipotesi scientifica sul formarsi dell’immagine, tenderemo ad estraniare questo momento da un giudizio di valore; e porteremo, naturalmente, tutto il peso dell’immagine sul momento ad esso anteriore, quello dell’accostamento all’oggetto, e della sua scelta. In termini sintetici, sul momento della “proposta visuale”.
Ritorniamo così al discorso iniziale: a differenza delle altre critiche – che possiamo chiamare al di fuori di ogni atteggiamento spregiativo “formali” – quella fotografica non può collocare passivamente il suo metro in un giudizio che riguardi a posteriori l’opera esaminata. È richiesta invece una presenza dialettica, una certa qual contemporaneità ideale al lavoro del fotografo, ai suoi interessi, ai suoi gusti, al suo mondo interiore. Anche se formulato retrospettivamente, il giudizio sulla fotografia è un giudizio che riguarda la positività o meno di un certo approccio con il reale; e quindi va collocato “storicamente” al momento dello scatto, ed alle condizioni mentali in cui l’autore ha scattato.
In tal modo giunge anche una spiegazione per l’acuito interesse verso il fotografo, piuttosto che verso le singole opere: è infatti proprio l’assieme di queste, e la loro armonia col comportamento dell’autore, a farci parlare di visione, o come si dice, di “mondo espressivo”… Senza contare che ci interessa anzitutto la portata sociale di una comunicazione fotografica, proprio in quanto essa possiede una somma di significati “decifrabili” (quindi validi) su un piano collettivo.
Giudicheremo il fotografo, quindi, solo come un uomo calato nella collettività di “lettori”; con in mano – è questo che lo distingue – lo strumento che gli permette di attuare scientificamente una personale proposta.
Sulle connessioni tra produzione fotografica e critica delle immagini sul piano della validità collettiva, sarà opportuno fare ancora un discorso a parte. Ma quanto chiarito sopra basta forse per una discussione sul concetto di “critica militante”, che già era stato anticipato nel primo editoriale di Dibattito.
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