testi anni 80
Introduzioni a tre sezioni del catalogo della mostra “Italia. Cento anni di fotografia”, (Firenze, Palazzo Rucellai, 16 maggio-15 ottobre 1985; sedi varie) Alinari, Firenze, 1985
Ci è sembrato opportuno intervallare la nostra sequenza fotografica lungo un secolo di vita italiana, con sei brevissime introduzioni scritte. In esse vogliamo collegare i fenomeni sociali emergenti dal paese con l’evolversi del linguaggio fotografico, tanto nella strumentazione tecnica come nelle intenzioni creative degli operatori. Questo legame ci sembra tanto più opportuno per il capitolo iniziale, che reca le immagini dal 1884 ai primi del nuovo secolo. L’Italia è unita da meno di venticinque anni. Conta circa trenta milioni di abitanti. Su una realtà fisica e sociale multiforme, e contraddittoria, vengono calati ordinamenti ‘piemontesi’ e viene imposta una trasformazione economica e industriale di cui le comunicazioni ferroviarie sono l’elemento portante. Da 2400 chilometri nel 1860, a 9300 nell’80. Nel magico paesaggio italiano, la natura evocata da secoli di pittura e poesia appare all’obiettivo del fotografo improvvisamente ferita da ponti e tunnel. Egli può finalmente documentare tutto, caricando gli chassis con le comode, rapide lastre a secco, anziché preparare le emulsioni al collodio e stenderle volta per volta: il giovane artigiano Michele Cappelli è il primo fornitore nazionale del nuovo materiale negativo. Le lastre Cappelli in formati più piccoli documenteranno anche le tensioni sociali, il difficile evolversi di una nazione che per migliaia di stranieri agiati continua a essere occasione di lunghi viaggi assolati, di stupefatte visioni ‘pittoresche’ riproposte in grandi copie cartonate presso gli studi delle città turistiche. L’analfabetismo intorno al 1880 è del 68 per cento; i giornali letti dalle élite urbane escono con piccole illustrazioni xilografiche che gli incisori ricavano manualmente interpretando e manipolando le foto originali. Nel 1885 L’Illustrazione Italiana pubblica la prima immagine fotoincisa, cioè riprodotta direttamente su un cliché metallico a mezzatinta, da una ripresa fotografica. In questo delicato periodo di transizione della fotografia da passione di élite (‘nobile arte’ per gentiluomini come il romano Giuseppe Primoli) a linguaggio d’uso universale, supporto di informazione e consenso, si inserisce la prima vera industria italiana di produzione delle immagini. La presenza qui di tante riprese dovute ai Fratelli Alinari, testimonia il valore, l’attualità di un archivio ancor oggi insuperato per chiunque desideri indagare la nostra realtà monumentale, artistica, naturale. La ditta è nata nel 1854, quando dello studio fiorentino di Leopoldo Alinari entrano a far parte anche i fratelli Giuseppe e Romualdo. Mentre agli inizi si predilige la documentazione dei capolavori d’arte, sarà il figlio di Leopoldo, Vittorio, chiamato a dirigere l’azienda dal 1892, a sviluppare le campagne sistematiche di ripresa in tutta Italia. Rivivono nelle inquadrature degli Alinari, nel metodo imposto agli operatori dipendenti, alcune qualità che potremmo definire rinascimentali: la sapienza tecnica, la manualità geniale, l’intelligenza imprenditoriale nello sfruttare il “catalogo” delle vedute. L’impiego costante di lastre nel grande formato 21×27 cm, una visione prospettica frontale e senza distorsioni ma non anonima, garantiscono alle foto Alinari un tono inconfondibile: chiarezza di dettaglio, chiarezza di approccio ai soggetti, con grande quantità di particolari significanti offerti alla “nostra” attenzione di posteri… Mentre raccontano per esteso – oltre a Firenze – città come Roma, Napoli, Venezia e annettono all’azienda fondi come quelli di Giacomo Brogi, gli Alinari sono presenti anche nello sviluppo culturale e associativo della fotografia italiana, che riconosce il suo centro nel capoluogo toscano. Vittorio è tra i fondatori della Società Fotografica Italiana (1889) il cui glorioso Bollettino è ancora oggi uno strumento essenziale per capire le vicende della nostra fotografia. Dalle sue pagine emergono raffinate illustrazioni d’autore – ne pubblichiamo alcune – e una atmosfera di fervore scientifico, di entusiasmo romantico e positivo a un tempo. Cioè il senso complessivo dell’illusione borghese fin de siècle.
Nella seconda guerra mondiale altri milioni di negativi accrescono gli archivi militari e — in misura molto minore — le raccolte di editori o professionisti privati. Le due destinazioni essenziali saranno quella tecnica (rilevamenti aerei e terrestri, documentazione di mezzi bellici, spionaggio) e quella propagandistica (mobilitazione psicologica dei fronti interni, fiducia nella vittoria, destabilizzazione del morale avversario). Il fenomeno riguarda tutte le nazioni in guerra, e l’Italia fascista apparirà alla fine sconfitta dall’incompetenza anche su questo terreno.
L’Istituto Luce organizza peraltro reparti militarizzati cui collaborano i fotocronisti che solo da pochi anni hanno fondato in Italia le prime agenzie: per esempio i milanesi Tullio Farabola e Fedele Toscani. A fianco di Tempo appare l’edizione italiana del settimanale tedesco Signal dove le fotografie di propaganda per le forze dell’Asse assumono aspetti d’avanguardia, certamente assimilati da Life e da Picture Post: colore a doppia pagina, dinamiche foto aeree con particolari “sgranati”, composizioni formalmente curate. Le
forze interne di opposizione, le organizzazioni della resistenza, non fanno trapelare nessuna loro informazione fotografica, per ovvi motivi; né penseranno a una controinformazione sui misfatti di Salò, mentre i repubblichini tenteranno una riorganizzazione in extremis dell’Istituto Luce a Venezia. Il 25 luglio, i bombardamenti dell’estate e I’8 settembre verranno documentati solo nelle grandi città da privati fotoamatori o da isolati reporter come Vincenzo Carrese, titolare della Publifoto… Se il 1943 è un anno buio, paradossalmente vi brillano anche nuove luci visive, vi compaiono lampi d’idee e presagi di generale rinnovamento fotografico. Esce infatti un annuario Fotografia a cura di Ermanno Scopinich, redatto da Alfredo Ornano, impaginato da Albe Steiner, edito dalla Domus di Gianni Mazzocchi. Questo volume getta stranamente sulle disperse forze intellettuali dell’immagine una manciata di idee, e una vera prospettiva di rinnovamento. Scopinich scrive nella nota iniziale “[…] Almeno tre generazioni di fotografi hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo, dei riflessi, dei tramonti sul lago, delle onnipresenti monache con le vesti al vento, convinti che solo soggetti di questo genere fossero adatti ad essere interpretati “artisticamente” senza preoccuparsi del mondo, della vita, della mentalità che cambiava […]. Che le altre arti possano influenzare la fotografia è possibile, anzi necessario. Ma la fotografia non deve copiare l’arte […]. Non vogliamo più sentire parlare di fotografie che sembrano un quadro di Rembrandt, di ritratti che si possono scambiare con un pastello di Rosalba Carriera, di paesaggi alla maniera dei macchiaioli toscani”. Le illustrazioni propongono un paese non retorico, lontano appunto da ogni pittorialismo, e tra gli autori troviamo oltre ai grafici e agli architetti già citati, pittori come Mucchi e Veronesi, ed i futuri fondatori de La Bussola come Giuseppe Cavalli, Federico Vender, Mario Finazzi. Compare anche Federico Patellani con un saggio famoso, II giornalista nuova formula, ove si auspica che costui ” […] sappia fare fotografie che documentino il lettore; se vuole, se è capace, faccia poi delle belle fotografie, interpreti ciò che vede. Il campo è aperto, non ci sono strettoie, non ci sono limitazioni […]”. Patellani suggeriva inoltre di trovare nel cinema l’ispirazione per il rinnovamento visivo ” […] La fotografia di movimento richiede la scelta di un momento narrativo quale solo il cinematografo ci ha abituati a vedere, con l’offrirci la possibilità tecnica dì sezionare e analizzare i valori successivi di ogni atteggiamento e di ogni movimento dell’uomo, delle macchine che egli ha creato e di tutto ciò che vive attorno a lui […]”. Sempre nel ’43 Visconti sta girando Ossessione che anticipa talune lezioni stilistiche del
neorealismo. E dal sud, dalle spiagge dell’Italia sconfitta brulicanti di mezzi da sbarco angloamericani risalgono i corrispondenti fotografi come Robert Capa, pronti a riprendere i pastori siciliani, i bambini e le madri di Napoli, le macerie di Montecassino. Si incontrano aldilà dei fronti due diverse ma simili lezioni di rigore visivo, un recupero della realtà disarmata ma “significante” proprio per l’incalzare degli accadimenti drammatici. È la fine: nella primavera del ’45 dallo stabilimento di Ferrania non esce più materiale, i fotocronisti più accorti hanno sotterrato qualche spezzone di pellicola cine e scattano avaramente; gli altri elemosinano rullini dai soldati americani, e ne ricevono in prova anche le grosse fotocamere Speed-Graphic verde oliva, munite di pellicole piane 9×12. I partigiani e i reparti di Alexander che entrano acclamati nelle città del nord, Piazzale Loreto, le SS che si arrendono all’Hotel Regina, bandiere, baci, danze di piccoli italiani smagriti: sono immagini straviste e assimilate, non “d’autore”, ma che preparano una breve stagione dove tutti si sentiranno un po’ “autori”.
Sono questi gli anni che trascorrono tra cicatrici morali e materiali, mentre si avvicina il mitico sviluppo economico, la grande illusione italiana degli anni ’60. La nazione esce dall’incubo di una guerra non sentita, da una parentesi reazionaria non casuale, e con la sensazione che i grandi giochi delle potenze vincitrici passeranno sulla testa di tutti per molti decenni a venire. La vittoria repubblicana di misura, le divisioni tra le forze democratiche e antifasciste, i partiti di governo non interamente ripuliti dal cinismo e dal disprezzo per la massa dei cittadini (che avevano contraddistinto le classi dirigenti di tutto il nuovo secolo) la cultura e l’arte ancora vissute con protagonismo da poche personalità “baronali”… Ecco alcuni dei nodi che serrano lo sviluppo sociale e morale, e che ancor oggi non ci appaiono disciolti. Con queste ipoteche di fondo l’Italia vive tuttavia una stagione di progetti e di speranze, di cui i settimanali illustrati, il cinema, la nuova letteratura sono gli episodi salienti. Nell’immediato dopoguerra escono con il nuovo Tempo Illustrato, Oggi e L’Europeo diretto da Arrigo Benedetti (che contiene l’eredità visiva di Omnibus e che più tardi porterà all’esperienza dell’Espresso). Nel ’50 seguirà Epoca di Mondadori, per lunghi anni attenta a sviluppare una linea coerente di giornalismo fotografico. Tra i cinegiornali, seguitissimi, primeggia La Settimana Incom. Tra i periodici culturali capaci di illustrare non banalmente i testi è d’obbligo citare II Politecnico di Elio Vittorini, cui seguirà più tardi II Mondo di Pannunzio. Rossellini, De Sica, Zavattini, Visconti: ad essi è legata la vicenda entusiasmante di un cinema povero di mezzi ma ricco di creatività, di qualità narrative e visive. Subito arriva l’ondata dialettale dei comici, Totò in testa, memore della tradizione italiana del teatro di rivista, e l’ondata dei melodrammi sentimentali alla Matarazzo. Stretta tra un giornalismo che privilegia i colpi diretti di flash e un cinema che rincorre un po’ sguaiatamente i grandi successi popolari… la fotografia italiana stenta ad emergere. Perde l’occasione di inserirsi nel movimento del “realismo” che investe le arti figurative, preferendo invece riferirsi all’estetica crociana, come fa Giuseppe Cavalli nel manifesto di fondazione de La Bussola (1947). Se la rivista Ferrania, redatta da Guido Bezzola, Alfredo Ornano, Luigi Veronesi, è il punto di riferimento dei neo-formalisti cavalliani, altre più coraggiose immagini sono pubblicate negli anni ’50 da II Mondo di Pannunzio (e in parte da II Borghese di Longanesi) mentre su Cinema Nuovo Guido Aristarco propone la poetica realista di Zavattini applicata ai foto-documentari.
Nel 1951 appare il gruppo milanese de L’Unione Fotografica guidato da Piero Donzelli — e di cui fanno parte fotoamatori di talento come Arrigo Orsi e professionisti come Davide Clari — polemico contraltare a La Bussola sulle pagine stesse di Ferrania; e non solo produce immagini alternative, ma organizza mostre di respiro come quella a Brera sulla fotografia europea. I circoli fotografici sono frequentati da danarosi gentiluomini che esibiscono rare fotocamere tedesche, e snobbano i nuovi geniali fotoapparecchi italiani (Microcamera Ducati, Rectaflex, Condor Galileo) troppo in anticipo sui consumi di massa. Lontano dalla spiaggia di Senigallia, il giovane Mario Giacomelli inizia la sua serie di memorabili paesaggi dell’entroterra marchigiano. A La Gondola di Venezia le discussioni contro le dirigenze conservatrici impegnano personalità nascenti della nuova fotografia italiana come Monti, Berengo Gardin, Roiter. Non sono ancora diffusi i fotolibri; ed è la rivista internazionale Camera diretta da Romeo Martinez il tramite fondamentale per conoscere i maestri stranieri: Haas, Cartier Bresson, Steichen, Weston, Steinert, Brandt. Naturalmente a fianco della produzione fotografica col segno della qualità espressiva scorre sempre più largo il fiume dell’immagine-souvenir di massa: gli apparecchi a basso prezzo in plastica popolano le domeniche assolate, percorse da migliaia di pullman, dalle utilitarie in coda, dalle coppie in motoscooter.
Gli studi dei ritrattisti abdicano dopo decenni al loro censimento della mimica umana, le fototessere si fanno nelle cabine automatiche, dilagano sugli album le copiette a colori, stampate da grandi laboratori, destinate ad un rapido sbiadimento.
Intanto, lo sforzo massiccio dell’industria di beni di consumo deve essere sostenuto, per la prima volta nella storia nazionale, da ingenti investimenti pubblicitari. Dalla fine degli anni ’50 si installano a Milano le grandi agenzie internazionali e gli art director americani, svizzeri, olandesi sconfiggono gli ultimi grafici o cartellonisti italiani “da cavalletto”. Nascono le sale di posa super attrezzate: i fotografi professionisti accolgono le prime modelle che porgono confezioni di dadi e detersivi. E la televisione, come vedremo, si prepara a chiudere gli spazi operativi dei fotogiornalisti in rotocalco.
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