testi anni 90
in “Segni, storie, fotografie tra Lecco e Milano. Giuseppe Pessina e il Gruppo 66”, Leonardo Arte, Milano 1999; pubblicato anche in “Riflessioni”, periodico del Centro Italiano della Fotografia d’Autore della FIAF (n°19, dicembre 2010)
Almeno trentacinque anni mi separano dalla copie – ben conservate – che gli amici del Gruppo 66 mi passano, estraendole dalle scatole arancioni nel classico formato 24×30. Scorre una metropoli molto diversa dall’attuale, dove gesti e spazi sembrano più intimi. Dove sembra mancare la dimensione caotica, l’esplosione di microconflitti che oggi continuamente ci assale. Milano fotogenica non è mai stata. Eppure il disfacimento strutturale cui oggi assistiamo, la corrosione galoppante del suo volto… allora non sembrava neppure all’inizio. Si poteva parlare, a ragione, di uno stile o carattere ambrosiani. Pudore, fretta proverbiale, passione nel rifinire, disprezzo per i rapporti interpersonali troppo bizantini. Concretezza pragmatica, al limite del macchiettismo. Se dunque il decennio vede una città che certo non “sale” come ai tempi di Boccioni, ma è comunque mossa da fermenti rinnovatori nella propria cultura visiva… cosa accade nel piccolo mondo della fotografia “non professionale”? Dilettante o fotoamatore sembrano termini andati in crisi ma la debolezza di una eventuale alternativa è strettamente legata allo status sociale degli autori. A partire almeno dai lontani anni Venti, l’esercizio artistico e privato della fotografia è riservato a gentiluomini abbastanza agiati, che sono affermati nelle libere professioni. Medici, avvocati, imprenditori, dirigenti nel terziario, che possiedono super-apparecchi da ripresa, camere oscure e tempo libero a disposizione. Ma mentre il fulgore associativo del Circolo Fotografico Milanese (nato nel 1930) ha coinciso con un travaso culturale tra fotoamatori e professionisti, artisti, architetti, grafici… nel secondo dopoguerra i giovani “innovatori” si erano trovati in tutt’Italia a polemizzare con una vecchia guardia conservatrice, legata ad una visione “intimista” del mondo, provinciale, succube dei concorsi a premio e dei famosi “Saloni”. La Federazione delle Associazioni Fotografiche (nata nel 1948, guidata da Renato Fioravanti nella storica sede di Torino) esprimeva nella maggioranza dei circoli aderenti una serie di piccoli valori e di piccoli leader contrapposti… certamente inadeguata ai nuovi autori emergenti, ormai saturi di cataloghi, annuari, o proiezioni banali di diapositive. Intorno cambiava non solo la società, le scene da riprendere, ma arrivava l’eco di una evoluzione visiva che non si era fermata, come da noi, per vent’anni. Soprattutto negli Usa, in Francia, in Gran Bretagna, si erano affacciati nuovi modelli di fotografia giornalistica o comunque “narrativa” e ricerche linguistiche di notevole complessità. Proprio a metà degli anni sessanta, la Pop Art ad esempio affermava la legittimità d’uso di immagini ottiche del quotidiano (giornali, pubblicità) nel contesto di opere “multimediali” di nuovo drammatico significato. Il glorioso Circolo Milanese viene così flagellato da scissioni. Abbiamo già accennato a quella nel 1950 dell’Unione Fotografica capeggiata da Donzelli. Segue nel 1956 il Naviglio, nel 1957 il Gruppo Ottagono. Finalmente nel 1965 il nostro Gruppo 66 (Fantozzi: “Ricordo Paolo Monti che sogghignava sul valore testimoniale delle immagini fotoamatoriali, se soltanto esse si fossero salvate da una ipotetica distruzione di documenti visivi. Un mondo paradossale, assurdo: di vecchi e bambini controluce, greggi, marine deserte, balconi fioriti. Sì, noi eravamo irrequieti, eravamo tentati di passare al professionismo; ma non potevamo per ragioni anagrafiche, per carichi familiari. E così decidemmo di fotografare Milano, la nostra città, a poco a poco, metodicamente, in alternativa agli estetismi da ‘Foto-salone’ e naturalmente anche in alternativa alla fotocronaca dei giornali, sempre pronta a balzare sull’episodio, sul personaggio più che sulla condizione”).
Nello scantinato di un bar in via Sant’Orsola 8 -tra le scatole di Scotch e di prosecco, destinate ai drink dei colletti bianchi – si riunisce di sera il nucleo promotore del Gruppo 66, formato da Castagnola, Cosulich, Fantozzi, Finocchiaro (Finocchiaro: “Gualtiero Castagnola, il più anziano fra noi, non faceva quasi più riprese, riconoscendo forse l’anacronismo del suo stile. Ma stranamente era il più attivo sul piano concettuale. Era l’innovatore più coraggioso. Decidendo di rinunciare a ogni personale specificità di linguaggio, rifiutando volontariamente di far prevalere i nostri estri casuali, gettavamo le basi di una sorta di creazione collettiva, senza più le nostre ‘firme’, ma più estesa e dall’impatto sicuramente moltiplicato”). Con l’aggiungersi dei nuovi aderenti Bassanini, Rosa, Serravezza (quest’ultimo presto inattivo) i nostri decidono addirittura di dividere la città in zone e di seguirne a turno tutti gli avvenimenti, le trasformazioni territoriali, i fenomeni di costume collettivo. E mentre riprendono, trovano anche il tempo di incontrare i fotografi che da poco avevano fatto il salto nella professione. Oltre ai già noti Monti e Berengo Gardin, anche Pepi Merisio, Giuseppe Bruno, Mario De Biasi. Lo scopo è anche quello di mettere a punto una specie di visione comune, con caratteri vincolanti nella tecnologia di ripresa, nella scelta dei fotogrammi, nel tipo di stampa (Fantozzi: “Dovevamo fare in modo che i soggetti non venissero enfatizzati attraverso l’uso di focali troppo brevi, e troppo lunghe. Ammiravamo Cartier Bresson quanto William Klein, un mito in quegli anni per molti giovani. Ma non volevamo che la forzatura prospettica ‘depistasse’ in certa misura l’osservatore delle nostre foto”. Finocchiaro: “II colore ci appariva come una variante troppo superficiale nelle scene affrontate. Truffando per così dire la nostra attenzione, ci avrebbe portato a scattare frettolosamente, cadendo nella banalità. Perciò abbiamo deciso di lavorare solo in bianco e nero”). Tra il 1965 e il 1975 — circa un decennio di produzione continua — nel famoso armadio metallico del Gruppo 66 si accumulano circa 1200 stampe 20×30, selezionate tra circa 12.000 riprese in 35 mm, pure archiviate, rullo per rullo. E stata prodotta anche una sorta di super selezione di circa 130 immagini, in formato più grande, su supporto rigido. Ed è questa che presentiamo, in buona parte, nelle pagine che seguono. Il gruppo espone le sue foto alla Galleria II Diaframma nel 1970 e poi nella grande mostra L’occhio di Milano che chi scrive allestì alla Rotonda della Besana nel 1977. I suoi esponenti intervengono al famoso Congresso FIAF di Verbania nel 1969 (titolo de “II Giorno”: Anche i fotografi contestano…) collaborano con Centro Informazioni Ferrania cui abbiamo già accennato, e offrono il loro lavoro senza retribuzione a enti pubblici e aziende cittadine. (Fantozzi: “Abbiamo ripreso per settimane i negozi Rinascente e Upim, lasciando sbalorditi gli uomini del loro marketing, non abituati a un approccio visivo senza complessi come il nostro. Ma abbiamo anche rifiutato il progetto di un art-director che voleva pubblicare le foto senza prevedere alcun onorario…”). Molti temi vengono affrontati da diversi autori congiuntamente. Oltre a quello dei grandi magazzini, la Settimana Britannica (1965), le manifestazioni del Primo Maggio nel quinquennio 1963-1968, i nuovi quartieri periferici, i riti religiosi, i miti musicali e le abitudini dei giovani, la trasformazione delle residenze nel centro storico e nell’hinterland. (Finocchiaro: “Ognuno poi aveva un modo personale di accostarsi ai soggetti. Cosulich ad esempio chiacchierava a lungo prima degli scatti trasformandosi in una specie di amicone ficcanaso. Io mai, preferivo riprendere velocemente, con freddezza, prima che il momento adatto si dileguasse…”).
Il gruppo ha anche un’intensa corrispondenza con critici, associazioni e vari fotografi. A taluni autori esterni appaiono troppo restrittive proprio le limitazioni all’autonomia operativa assoluta, in favore della programmazione comune. Alcuni nomi notissimi rinunciano ad integrarsi nel Gruppo 66. Il quale invece riceve subito, nel 1965, una cartolina firmata da un vecchio fotografo sconosciuto, Giuseppe Pessina. “Ho letto di voi sulle riviste, incontriamoci”. Pessina, che ha 86 anni, è in cerca di un sicuro asilo per il suo archivio di lastre in medio e grande formato, che vorrebbe valorizzato da interlocutori competenti, da uomini di immagine. Negli incontri al Bar Sant’Orsola presenta le sue foto più dinamiche: la Grigna, il viaggio dei cicloturisti, la Grande Guerra, Roma e Napoli… Quelle presenti in queste stesse pagine. Più di mezzo secolo dopo i suoi scatti, Pessina identifica il proprio linguaggio con quello dei più giovani amici milanesi. “Il mio lavoro non è distante dal vostro, posso lasciarvi le immagini, i negativi che meglio descrivono il mio temperamento creativo”. Altre foto Pessina le lascerà ai familiari, a enti lecchesi, ai vecchi concittadini di Bormio… La cooptazione di Pessina resta solo un episodio, ma chiaro sul desiderio dei nostri amici di non rimanere isolati. Al punto che alcuni ritornano a frequentare l’antica casa madre, il Circolo Fotografico Milanese. L’armadio-archivio sosta al Circolo Volta – che ospita appunto il CFM – e assiste silenzioso a feste, tornei di bridge, serate culturali, all’incirca fino al 1975, quando cioè ritorna definitivamente in casa di Mario Finocchiaro. E’ possibile dedicare qualche appunto finale al “significato” di queste immagini (anche delle migliaia che non vedremo riprodotte, che possiamo immaginare silenziose al loro fianco) nell’archivio del Gruppo 66? Abbiamo già detto che la messa a punto di una comune sintassi visiva ha reso omogenee le foto dei diversi autori; e rende più fluida la narrazione dei casi cittadini portati a scorrere sotto i nostri occhi. La rinuncia all’esasperazione prospettica causata da grandangolari o tele estremi favorisce l’identificazione con i nostri sguardi. Ci rende tutti dei casuali passanti in “quelle” strade. I nostri passi si incrociano con quelli degli autori, che sembrano invitarci ad un’attenzione non banale verso i nostri simili, verso lo scenario metropolitano che li ospita. Queste foto appaiono anzitutto come un antidoto alla solitudine urbana, prodotte in tempi in cui la battaglia forse era più facile da combattere. Presuppongono che il fotografo abbia vissuto a lungo quell’atmosfera – prima, dopo, o anche senza impugnare la fotocamera – che egli sia stato insomma un cittadino consapevole oltre che attento. Presuppongono anche che gli scenari non vengano manomessi o ricostruiti, che nessuno vi si collochi in posa. O, se lo fa, lo faccia in funzione di una provocatoria “esibizione” verso il fotografo, il che riporta tutto entro i binari della commedia sociale, dell’imprevedibile realtà (che come sappiamo supera sempre ogni nostra “fantasia”). I nostri amici fotografi, l’abbiamo visto, non sono dei professionisti dell’immagine, anche se alcuni poi lo diventeranno, e altri sono tentati dal salto decisivo. Ma il loro “tempo libero” in realtà esige vincoli operativi superiori a quelli che ognuno accetterebbe nella sua occupazione “feriale”. Appaiono tutti scatenati in una sorta di missione narrativa, cui dedicano le loro migliori energie tecniche ed intellettuali. Dietro molte delle memorabili sequenze ci sono requisizioni dei bagni-camera oscura per interi week-end, scontri coniugali, autocritiche e rifacimenti. Contraddizioni che nessun fotografo professionista normalmente ha vissuto. In realtà l’hobby è diventato una ricerca impegnata; e in questa gli autori portano i margini residui di autonomia critica che possiedono come cittadini, o che addirittura avevano censurato nella routine della loro professione. Affermo questo ricordando personalmente le sprezzanti e ingenerose critiche che giovanissimo rivolgevo a chi non si era gettato come me nella professione fotografica; e riconoscendo lo schematismo di questa linea, che non teneva conto dei grandi mutamenti che la civiltà urbana occidentale cominciava ad attraversare. Il rapporto tra lavoro e tempo libero stava mutando rapidamente le sue proporzioni. In effetti, nessuna agenzia, nessuna rivista, nessun fotografo free-lance avrebbe potuto assumersi con logica di mercato nemmeno una frazione del lavoro compiuto dal Gruppo 66. Anzitutto perché non rispondeva ad alcuna committenza, e poi perché richiedeva tempi di preparazione e riflessione, ed una ostinata continuità operativa “inaccettabile” nella normale prassi della produzione fotografica. Si può quindi affermare che queste opere rappresentano una rivincita, seppure inconsueta, della libertà di immagine sull’alienazione – magari ben retribuita – che affliggeva i professionisti del settore. Osservando uno dopo l’altro gli spazi di quella Milano, e seguendo le mosse dell’umanità minore che vi si muove, possiamo anche trarre altre valutazioni sul mutamento dei ruoli “tipici”.
La fotografia si è sempre nutrita di codici semplificati, per un immediato passaggio di valori comunicativi (o interpretativi) tra l’autore e il fruitore. La necessità di immediatezza (un valore tipico del linguaggio ottico) ha rovesciato sulla fotografia, fin dal suo nascere, un grande peso di retorica. Perché fosse efficace il messaggio, si doveva rassicurare il destinatario dell’immagine con una somma di simboli scontati. Ecco quindi il bozzettismo, il manierismo, la convenzione formale (magari mutuata puerilmente dalla pittura…) che si sono travestiti da “valori universali” per trasformare la fotografia in un comprensibile linguaggio di massa. Ora, proprio il secondo dopoguerra (assieme all’eco della cultura letteraria e cinematografica definita Neorealismo) porta i fotografi più attenti a mutare i propri stereotipi linguistici.
Queste immagini del Gruppo 66 sono anche una “sublimazione” e una negazione del pittoresco. Spostano e sostituiscono scenari e personaggi nella scala dei valori del nostro immaginario. La predilezione visiva è deviata verso gli outsider della condizione urbana. I ragazzi con le maschere di Carnevale, o con i mascheramenti imposti dalla moda. Famiglie appena immigrate dal Sud — appena arrivate alla Stazione Centrale – già travolte dai rituali del Consumo. Gli interpreti della tradizione meneghina (al Mercato Ortofrutticolo, allo stadio, alle feste sul Naviglio, nelle corti selciate) che ripropongono la loro maschera già suggerita in tempi diversi da Carlo Porta o Emilio De Marchi. È tutta una sistemazione sociologica alternativa a quella fino allora prediletta dai collaudati estetismi fotoamatoriali.
E oggi possiamo leggerla anche come un modello di analisi ben precisato nel tempo. Gli eredi del Neorealismo milanese, e i loro epigoni sparsi in tutte le grandi città del nord Italia avrebbero retto pochi anni oltre il fatidico ’68.
Gli anni ottanta (ma è tutta un’altra vicenda) avrebbero segnato un ritorno alla “soggettività” del fotografo-autore, isolato con la sua fotocamera a contemplare non più le vicende umane, ma i segni dell’uomo nei silenziosi spazi feriti del territorio. Come sappiamo, a trent’anni di distanza, quasi tutto è mutato sul palcoscenico milanese. Le teatrali manifestazioni degli studenti sono rare e svogliate. I tavolini in Galleria sono pieni solo di giapponesi che rimirano i sacchetti degli stilisti. A San Cristoforo non si va più per lavare (né benedire) le medie cilindrate. Sono fuggite le ultime portinaie con lo scialle, capaci di bloccare i topi d’appartamento. I colletti bianchi, sempre in corsa sulle scale del metrò, lo hanno reso un rudere, che neanche i graffitari riescono a vivacizzare. La città attende una nuova generazione di narratori per immagini. Diciamo che ci manca un Gruppo 99.
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